DI ENRICO GALAVOTTI
Ogni storia che si racconta dovrebbe prevedere percorsi diversi, alternativi, opzionali. Guai alle storie chiuse, unilaterali, non aiutano in alcun modo lo sviluppo della dialettica. Una storia può ovviamente finire in un modo piuttosto che in un altro, però occorre sempre mettere in evidenza che a quel finale i protagonisti sono giunti a motivo delle scelte compiute (buone o cattive ch'esse siano state). Occorre cioè che il narratore eviti di far credere all'interlocutore (lettore o ascoltatore) che la dominante della storia è il destino o, peggio, la casualità.
Il destino non è altro che un susseguirsi di scelte, in cui il caso ha giocato una parte irrilevante o comunque poco significativa. Il narratore dovrebbe persino concludere la sua storia lasciando credere che, nonostante le molte scelte negative compiute, esiste ancora una via d'uscita. Cioè dovrebbe indurre a considerare gli errori dei protagonisti come un motivo sufficiente per non ripeterli. In effetti, se coltivassimo meglio il valore della memoria storica, faremmo sicuramente meno errori, sprecheremmo meno risorse ed energie. E' l'ingenuità o l'incoscienza di credere in un progresso proiettato all'infinito che ci rende presuntuosi nei confronti del passato, delle tradizioni, dei valori che ci sono stati trasmessi. Ecco perché ad un certo punto ci troviamo a dover ricominciare da zero. Le guerre non sono che il risultato di questa dimenticanza storica, che si protrae eccessivamente nel tempo. Infatti, quanto più si dimentica il passato, tanto più si è portati a credere che il male sia un prodotto inevitabile del destino. Forse non è un caso che le culture legate a questo concetto di destino siano anche quelle più individualiste. Una cultura popolare ha fiducia nelle proprie risorse e non ha paura degli errori che compiono le singole persone. Forse non è un caso che la cultura occidentale, individualista per definizione, abbia una volontà di risolvere i problemi (di cui ha consapevolezza) assolutamente inadeguata. Noi sappiamo ciò che non funziona, ma non sappiamo come farlo funzionare. Forse non è un caso che i media tendano progressivamente a ridurre al minimo il livello di consapevolezza della gravità dei problemi.
Non è singolare che le notizie di tipo effimero vengano continuamente mescolate a quelle drammatiche? Non è forse questo il modo di presentare una notizia come fine a se stessa? La notizia viene data non allo scopo di far riflettere su come risolvere un determinato problema, ma solo allo scopo di difendere un potere costituito o per ricavarci un profitto economico (p.es. attraverso la pubblicità). Le notizie ci vengono somministrate in un modo così amorale e in così grandi quantità, che alla fine non ci interessa affatto sapere cosa veramente sia accaduto. La notizia stimola soltanto una sorta di curiosità fine a se stessa, come quando si leggono dei giornali in attesa del proprio turno di visita o di lavoro. Perché in Italia vengono letti così pochi quotidiani? Perché le news che ci passano la televisione e la radio sono sufficienti per le nostre esigenze di curiosità sui fatti del mondo. Quando vogliamo notizie personalizzate ci rivolgiamo al web. I mass media classici (radio, tv e giornali) hanno creato un utente al quale non interessa approfondire per capire e per poter contribuire a risolvere un determinato problema. A noi interessa semplicemente restare quel minimo aggiornati per non fare brutta figura di fronte al collega che ci chiede: "Hai visto cosa è successo?".
La nostra consapevolezza degli avvenimenti non è che un'acquisizione sterile di nozioni astratte, che ci piovono addosso come un fiume in piena. Cioè non è mai il prologo di un'azione che può diventare partecipata, con valenza educativa e fine politico. Un'informa-azione dovrebbe essere trasmessa solo a condizione di portare a una qualche "azione" socializzante (piccola quanto si vuole, ma pur sempre reale, efficace). Anche nel mondo della scuola è assurdo pensare che la ripetizione più o meno fedele di nozioni prestabilite debba essere considerato come il massimo obiettivo dell'azione educativa.