DI ETIENNE BALIBAR
Cosa è successo in Europa? I governi di Italia e Grecia sono cambiati, mentre alle elezioni di domenica scorsa la sinistra spagnola è colata a picco clamorosamente. Si tratta soltanto di un'altra scossa nella breve storia dei rimaneggiamenti politici innescati dalla crisi finanziaria? O è forse il superamento di un punto di non ritorno nello sviluppo della crisi stessa, che avrà conseguenze irreversibili sulle istituzioni europee e sulla loro legittimità? Malgrado le incognite, bisogna avanzare un'ipotesi.
I ribaltoni elettorali (il prossimo potrebbe verificarsi in Francia tra sei mesi) non richiedono commenti approfonditi. Ormai è chiaro che l'elettorato ritiene i governi responsabili dell'insicurezza crescente che oggi caratterizza la vita della maggioranza dei cittadini europei, e allo stesso tempo non si fa troppe illusioni riguardo ai nuovi leader (anche se dopo Berlusconi è abbastanza normale che Monti per ora batta tutti i record di popolarità). La questione più seria riguarda invece la svolta istituzionale. La concomitanza tra le dimissioni dei leader politici sotto la pressione dei mercati (che hanno mandato sull'ottovolante i tassi d'interesse sul debito), l'affermarsi di un "direttorio" franco-tedesco in seno all'Ue e la presa del potere da parte dei "tecnici" legati al mondo della finanza internazionale, consigliati se non sorvegliati dall'FMI, alimenta discussioni e inquietudini. Uno dei temi più frequenti è quello della "dittatura commissariale" che sospende la democrazia per ricrearla in futuro – una nozione definita da Bodin agli albori dello stato moderno e successivamente teorizzata da Carl Schmitt. Oggi i "commissari" non possono essere militari o giuristi, ma devono per forza essere economisti. Il 15 novembre Le Figaro scriveva: "il mandato e la durata del mandato [di Monti e Papademos] devono essere sufficientemente estesi da permettere ai loro governi di essere efficaci. Tuttavia entrambi i nuovi capi di governo devono essere limitati per assicurare, nelle migliori condizioni, il ritorno alla legittimità democratica. Non possiamo accettare che l'Europa si costruisca senza la partecipazione dei popoli che la abitano".
Personalmente preferisco un altro approccio, quello che parla di una "rivoluzione dall'alto" messa in atto dai leader dei paesi dominanti e dalla "tecnostruttura" di Bruxelles e Francoforte facendo di necessità virtù (il crollo annunciato della moneta unica). Questa nozione, inventata da Bismarck, definisce un cambiamento strutturale della "costituzione materiale", in cui gli equilibri di potere tra stato e società e tra economia e politica vengono alterati dalla classe dirigente in base a una "strategia preventiva". È ciò che sta accadendo oggi con la neutralizzazione della democrazia parlamentare, l'istituzionalizzazione dei controlli sul bilancio e sulla fiscalità da parte dell'Ue e la sacralizzazione degli interessi bancari sull'altare dell'ortodossia neoliberale. Senza dubbio si tratta di trasformazioni in incubazione ormai da parecchio tempo, ma mai prima d'ora si era fatto un passo così deciso verso la creazione di una nuova configurazione del potere politico. Wolfgang Schäuble non ha torto a presentare la futura elezione del presidente del Consiglio europeo a suffragio universale come una "vera e propria rivoluzione", che conferirebbe alla struttura una base democratica, ma la verità è che la rivoluzione è già in corso. Tuttavia non è affatto detto che la missione avrà successo. Sul cammino del cambiamento si parano tre ostacoli, il cui effetto congiunto potrebbe sfociare un peggioramento della crisi e dunque nella "fine" dell'Europa come progetto collettivo. Il primo ostacolo risiede nel fatto che per definizione nessuno stravolgimento istituzionale è in grado di rassicurare i mercati, ovvero frenare la speculazione che si nutre del rischio di fallimento e delle opportunità di guadagno che offre a breve termine. È il principio della proliferazione dei "prodotti" derivati e dello spread sui tassi d'interesse sul debito.
Le istituzioni di collocamento che alimentano lo shadowbanking hanno bisogno di portare il budget nazionale sull'orlo dell'abisso, così come le banche hanno bisogno di poter contare sugli stati (e sui contribuenti) in caso di crisi di liquidità. Il problema è che le une e le altre costituiscono un circuito finanziario unico. Fino a quando l'economia del debito che governa ormai le nostre società da cima a fondo non sarà messa in discussione, non esisteranno soluzioni efficaci. Tuttavia la governance attuale esclude a priori un cambiamento radicale in questo senso, ed è pronta a sacrificare la crescita per un lasso di tempo indeterminato. Il secondo ostacolo è rappresentato dall'intensificazione delle contraddizioni intra-europee. Non soltanto l'Europa a due velocità è ormai una realtà indiscutibile, ma presto si trasformerà in un'Europa a tre velocità, e rischierà di spaccarsi in qualsiasi momento. Alcuni paesi che non fanno parte dell'eurozona (i beneficiari della potenza industriale tedesca nell'Europa dell'est) spingeranno per una maggiore integrazione, mente altri (soprattutto il Regno Unito), nonostante la loro dipendenza dal mercato unico saranno portati sempre di più a separarsi dagli altri. Quanto alle sanzioni nei confronti degli stati che non rispetteranno il rigore, avrà soltanto un ruolo marginale, se non deleterio. Basta vedere cosa è successo in Grecia, un paese esangue e sull'orlo della guerra civile, per immaginare quali potrebbero essere gli effetti di una generalizzazione di questo tipo di ricetta nel resto d'Europa. Last but not least, il direttorio franco-tedesco, già scosso dal disaccordo sul ruolo della Banca centrale, ha poche possibilità di rafforzarsi, nonostante gli interessi elettorali dei suoi membri e soprattutto del presidente francese.
Quale reazione? L'ostacolo più difficile da sormontare sarà rappresentato dall'opinione pubblica. Senza dubbio il ricatto del caos e la minaccia incombente di un ribasso del rating possono rallentare i riflessi democratici, ma non possono rinviare all'infinito la necessità di ottenere una legittimazione popolare per le trasformazioni in atto e per l'eventuale modifica dei trattati, per quanto questa possa essere limitata. Qualsiasi consultazione popolare porta con sé la possibilità che l'elettorato si schieri contro il progetto, come già accaduto nel 2004. A quel punto, alla crisi strategica si aggiungerebbe una crisi di rappresentatività, che in un certo senso è già in corso. Considerando tutto ciò è normale che ci siano delle critiche. Il problema è che vanno in direzioni opposte tra loro. Alcuni (come Jürgen Habermas) chiedono un aumento dell'integrazione europea e sostengono che per raggiungere l'obiettivo è necessaria una tripla ridemocratizzazione: riabilitazione della politica a scapito della finanza, controllo delle decisioni centrali da parte di una rappresentanza parlamentare rafforzata, ritorno alla missione di solidarietà e riduzione delle disuguaglianze tra i paesi europei. Altri invece (come i teorici francesi della deglobalizzazione) vedono nella nuova governance una sottomissione dei popoli sovrani a una costruzione sovranazionale schiava del neoliberalismo e alla sua strategia di accumulo per espropriazione. I primi sono chiaramente in sovrannumero, mentre i secondi sono pericolosamente vicini a fondersi con i nazionalisti potenzialmente xenofobi. Il problema fondamentale è capire come si orienterà la "rivolta dei cittadini" annunciata qualche giorno fa da Jean-Pierre Jouyet [presidente dell'Autorità per i mercati finanziari incaricata di regolare la borsa di Parigi] - in reazione alla dittatura dei mercati, di cui i governi sono solo uno strumento impotente. Il popolo si ribellerà contro la strumentalizzazione del debito o contro la costruzione europea in sé? Nei luoghi dove si concentra il potere (di diritto o di fatto) che gestisce la lotta alla crisi finanziaria, si formeranno strutture di contro-potere non soltanto costituzionali ma anche autonome e potenzialmente insurrezionali?
I cittadini d'Europa si accontenteranno di chiedere la ricostituzione del vecchio stato nazionale e sociale corroso dall'economia del debito, o cercheranno alternative socialiste e internazionaliste, chiedendo il ritorno a un'economia dell'attività su scala mondiale? In Europa come nel mondo, a determinare il volere del popolo saranno gli effetti della recessione (innanzitutto la disoccupazione). Ma sarà la capacità di analisi e di rivolta degli intellettuali e dei militanti a costituire il veicolo della reazione dei cittadini.
FONTE: Presseurop
(Traduzione di Andrea Sparacino)