giovedì 21 febbraio 2013

La Rivoluzione Politica Nascerà dal Web

DI MICHELE AINIS

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Ci avete fatto caso? Da un giorno all'altro la politica è sparita dalla scena. La discussione è tutta sui politici: quanto siano onesti, come possiamo dimezzarne il numero, e perché poi guadagnano come Paperone, perché i più giovani restano sempre fuori dalla porta. Loro, i vecchi, reagiscono con l'istinto del camaleonte, promettendo tagli, e ovviamente primarie a tutto spiano. Sui contenuti, sui programmi, nemmeno una parola; o altrimenti parole vuote, logore come un vestito troppo usato. Ma invece è questa la novità che si staglia all'orizzonte: nei prossimi anni il programma di governo lo scriveranno i cittadini. Su un'agenda elettronica, anziché su un foglio di quaderno. E vincerà chi saprà utilizzare al meglio la potenza della Rete.

Il successo elettorale del MoVimento 5 Stelle è tutto in questi termini. Non solo facce fresche: soprattutto un link aperto sulle istanze delle comunità locali, fino ad annullare la separazione fra società politica e società civile. Si chiama democrazia digitale, definizione coniata fin dagli anni Ottanta. Ma negli ultimi tempi le esperienze si moltiplicano, insieme ai suoi protagonisti. Per esempio "Se non ora quando?", la manifestazione delle donne convocata con un tam tam su Internet, che il 13 febbraio 2011 ha riempito le piazze con un milione di persone. E all'estero, la primavera araba. Il movimento Occupy Wall Street. Gli Indignados in Spagna. La rete dei dissidenti in Russia. La campagna elettorale di Obama, che dal Web attinge a piene mani. O i Piraten in Germania: a maggio hanno toccato l'8 per cento alle elezioni, con un manifesto che propone di attivare il sistema politico in open source. I nostri leader politici si tengono alla larga dai fermenti della Rete. Pensano che basti esporre la fronte corrucciata del Gran Capo sul sito del partito. O magari credono d'essere à la page postando una fotografia su Twitter, come ha fatto Casini durante il vertice di marzo con Monti, Alfano e Bersani. Probabilmente nessuno gli ha spiegato che i primi esperimenti di democrazia digitale si consumarono a Santa Monica nel lontano 1989. Che nel '94, ad Amsterdam, è nata la prima città digitale, con una rete civica consultata 130 mila volte in occasione delle amministrative. Che da allora in poi le applicazioni sono state innumerevoli, come d'altronde le esperienze di democrazia diretta, figlia legittima di quella digitale: le consensus conference, i town meeting del New England, le assemblee pubbliche che governano l'85 per cento delle municipalità svizzere, il Dialogo con la Città di Perth (Australia), le giurie civiche a Berlino. Non sanno che il voto elettronico si va diffondendo in tutto il mondo, come ha documentato "l'Espresso" la scorsa settimana: in Estonia, per esempio, un cittadino su quattro vota su Internet. Infine non conoscono strumenti come il voto cumulativo, in uso nella municipalità di Amburgo, e rilanciato per l'appunto dai Piraten: un sistema elettorale in cui ciascuno ha una pluralità di voti che può concentrare su un unico cognome oppure distribuire fra vari candidati. Scegliendo, insieme al partito, l'alleanza di governo.

Ma l'arma totale della nuova democrazia che avanza in Rete è il referendum: rapido, continuo, senza formalità procedurali né limiti d'oggetto. Se n'è accorto perfino un governo algido come quello in carica, con la consultazione on line sul valore legale della laurea o con l'impegno a sottoporre ai cittadini i nuovi progetti d'infrastrutture nazionali, dopo gli scontri in Val di Susa sulla Tav. Il modello è la legge Barnier, vigente in Francia dal 1995. Tuttavia i modelli in circolo sono almeno tre: la teledemocrazia, caldeggiata già da Clinton; le comunità virtuali, che s'aggregano in Rete; la democrazia elettronica deliberativa, dove ogni decisione è preceduta da un'ampia discussione. Hanno in comune l'ambizione di sfatare la celebre sentenza di Rousseau: lui diceva che ogni elettore è libero durante le elezioni e per il resto della vita torna schiavo. E in conclusione negano il ruolo dei partiti, o meglio li trasformano in luoghi di raccolta delle proposte soggette a referendum. Un terremoto.


FONTE: L’ESPRESSO

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