DI VALERIO PASSERI
Cos’è che rende un uomo capace di uccidere? Tralasciando i cosiddetti delitti “a sangue caldo”, dovuti a raptus improvvisi, parliamo del caso di guerre o attentati terroristici. Nel primo caso, la risposta forse più immediata è che si uccide per difesa o per paura. Eppure ci sono persone che della guerra fanno la loro professione e, in quel caso, vanno escluse entrambe le ragioni. Lo stesso ragionamento vale anche per i terroristi, di cui forse l’esempio più sentito in questo periodo è al-Qaeda.
Ovviamente i passi che portano il singolo ad armarsi e scegliere il proprio nemico variano da caso a caso, qui parliamo del momento in cui si "preme il grilletto". Nessun uomo nasce predisposto ad uccidere un proprio simile, ne tanto meno si può spiegare il fenomeno ricorrendo al termine “pazzia”. I terroristi non sono pazzi, i mercenari non sono pazzi, è un modo troppo semplicistico ed estremamente sbagliato di vedere questi fenomeni. Infatti la reazione di un uomo che sa di aver ucciso un altro uomo è di profondo rimorso e aberrazione. Di sicuro una persona pervasa da questi sentimenti è quantomeno poco propensa ad uccidere ancora. Il processo fondamentale di cui stiamo parlando e che spiega quanto detto è un altro, parliamo della cosiddetta “disumanizzazione del nemico”. La persona o le persone che si vanno a colpire non sono esseri umani ma degli oggetti, dei simboli sui quali riversare tutta la propria rabbia. Questo accade quando si viene a contatto con una cultura fortemente dicotomica che permette di marcare nitidamente la linea di confine tra amici e nemici. Il nemico non è Mario o Giovanni, ma la fonte di tutti i mali che è necessario eliminare per sopravvivere. Per i membri di al-Qaeda, ad esempio, l’America e l’occidente non sono dei territori dove vivono altre persone, ma una presenza malvagia che incombe ed è pronta a massacrare l’essere della civiltà medio-orientale. Viceversa vale per molti di noi occidentali verso l’Islam. Tutto ciò, per portare un esempio, spiega i recenti festeggiamenti per l’uccisione di Osama Bin Laden, non si pensa di aver ucciso un uomo ma di aver sconfitto il male assoluto, della vittoria del bene sulle forze maligne. Questo metodo è fondamentale e fortemente utilizzato anche nei regimi totalitari, infatti per mantenere il controllo c’è sempre bisogno di un capro espiatorio, un nemico pericolosissimo e molto vicino contro il quale bisogna rimanere assolutamente uniti. Senza andare indietro nel tempo, abbiamo quotidianamente esempi di questo genere: partiti che accusano altri di essere portavoce di teorie e sistemi terrificanti che attentano alla libertà di tutti, colpe di qualsiasi problema costantemente attribuite all’avversario, moniti sul chi votare per continuare ad essere un paese democratico e così via. Come già detto, questo metodo funziona benissimo poiché pensare in maniera dicotomica bene/male, amico/nemico, semplifica di molto i ragionamenti, chiude il dialogo con l’altro, consolida la vicinanza agli alleati.
In qualsiasi contesto, oltre che sbagliato, è profondamente pericoloso stimolare gli altri e noi stessi a pensare secondo categorie troppo nette. Chi è diverso da noi, va compreso, bisogna cercare di capire le sue ragioni, bisogna rivestire di umanità chi consideriamo ostile, anche se poi dovesse risultare incompatibile con il nostro modo di pensare. Quando tutto questo sarà un concetto compreso e scontato per tutti, guerre ed attentati terroristici saranno probabilmente solo un lontano ricordo.